A spasso tra i libri: frasi, passi, gemme...

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  1. SILENCIO!
     
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    ''Di là, dopo sei giorni e sette notti, l’uomo arriva a Zobeide, città bianca, ben esposta alla luna, con vie che girano su se stesse come in un gomitolo. Questo si racconta della sua fondazione: uomini di nazioni diverse ebbero un sogno uguale, videro una donna correre di notte per una città sconosciuta, da dietro, coi capelli lunghi, ed era nuda. Sognarono d’inseguirla. Gira gira ognuno la perdette. Dopo il sogno andarono cercando quella città; non la trovarono ma si trovarono tra loro; decisero di costruire una città come nel sogno. Nella disposizione delle strade ognuno rifece il percorso del suo inseguimento; nel punto in cui aveva perso le tracce della fuggitiva ordinò diversamente che nel sogno gli spazi e le mura in modo che non gli potesse più scappare.
    Questa fu la città di Zobeide in cui si stabilirono aspettando che una notte si ripetesse quella scena. Nessuno di loro, né nel sonno né da sveglio, vide mai più la donna. Le vie della città erano quelle in cui essi andavano al lavoro tutti i giorni, senza più nessun rapporto con l’inseguimento sognato. Che del resto era già dimenticato da tempo.
    Nuovi uomini arrivarono da altri paesi, avendo avuto un sogno come il loro, e nella città di Zobeide riconoscevano qualcosa delle vie del sogno, e cambiavano di posto a porticati e a scale perché somigliassero di più al cammino della donna inseguita e perché nel punto in cui era sparita non le restasse via di scampo.
    I primi arrivati non capivano che cosa attraesse questa gente a Zobeide, in questa brutta città, in questa trappola.''

    Italo Calvino, Le città invisibili
     
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  2. SILENCIO!
     
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    "Il mio desiderio è fuggire. Fuggire da ciò che conosco, fuggire da ciò che è mio, fuggire da ciò che amo. Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini e questi giorni. Voglio riposarmi, da estraneo, dalla mia organica simulazione. Voglio sentire il sonno che arriva come vita e non come riposo. Una capanna in riva al mare, perfino una grotta sul fianco rugoso di una montagna, mi può dare questo. Purtroppo soltanto la mia volontà non me lo può dare."

    Fernando Pessoa
     
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  3. emma*
     
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    L'ULTIMO SPETTACOLO


    Tre mesi dopo, 21,10 del 16 marzo 2002, al terzo giorno di coma, Carmelo Bene moriva, vegliato dal miagolio dei gatti e dal brusio delle donne che lo amavano, Luisa tra tutte, la «femminile disattenzione» che da sempre invocava a scortare i suoi morenti eroi di scena, da Pinocchio a Otello. No, non era la vista il dono più bello. Avevi fatto oscurare con le pagine rosa del tuo giornale sportivo lo specchio della camera e il suo prediletto Sony 37 pollici, lasciando solo una luce fioca da tela fiamminga sul quadro di Amore e Psiche.

    Avevi urlato notti intere, spellato dall'orrore ancora prima che dal dolore. Avevi invocato la morfina, il cianuro, impartite lezioni in francese su Céline a Massimo, l'infermiere che ti assisteva la notte e non sapeva una parola di francese, ma non sapeva neppure chi fosse Céline, consultato febbrilmente il manuale del perfetto suicida che l'amico francese ti aveva spedito da Parigi, maledetto i medici che si ostinavano a tenerti in vita, dopo averti reciso un pezzo di diaframma e la tua voce che non era più la tua voce.


    CARMELO BENE
    L'ultimo Carmelo coltivava come un alchimista la sua pietra filosofale. Farsi fuori lungo i tracciati orfici della sua voce, amplificata negli anni a suon di miliardi. A furia di replicare, indovinare il concerto definitivo, quello in cui sarebbe sparito, in fin di voce. Quella voce, chissà dove è andata quella voce, quella voce che ci dava calma e forza, quella voce che solo a sentirla ci spediva in paradiso.

    La voce di quella sera a Bologna, 31 luglio 1981, una sera di caldo scirocco, duecentomila persone stipate tra piazza Maggiore, via Rizzoli e le altre piazze, i viali e i vicoli attorno amplificati via radio da Salvatore Maenza, cieco dall'udito scaltrissimo e tu, Carmelo Bene, in jeans e camicia militare di cotone, che ti arrampichi scalzo sulla scaletta da pompiere che porta alla sommità della Torre.

    Il boato da stadio. La tua voce, tuoni e carezze da svenimento che precipitano e rimbalzano su quel tappeto umano, trasportate nel vento da migliaia di watts, neanche una mosca che vola, tra un canto e l'altro, le ovazioni. Non tanto e non solo la tua voce che dice Dante, ma la tua voce che dice nel congedarsi, dopo aver strappato anche l'ultima pelle con l'ultimo sonetto, «Chiedo scusa per il vento...».

    E ancora. La voce furiosa e commossa dei tuoi Quattro modi di morire in versi, Blok, Majakovskij, Esènin, Pasternak, Esenin, forse, in assoluto, la tua cosa più grande di artista, le tue lacrime finte e vere allo stesso tempo, mai tanto vere, il primo piano su di te, Carmelo Bene, spaventoso e spaventato, risucchiato dalle fiamme che tu stesso alimentavi, dal magistrale rogo che ha finalmente trovato il vento giusto, il verso e la voce, per bruciare senza che nulla più lo potesse estinguere.

    «La mia voce... non ha più le armoniche» ti disperavi, a chi provava a consolarti, ai tuoi angeli di gesso in giardino, tu avvolto nella tua vestaglia da camera con lo spacco vezzoso, prima di somigliare impeccabile ai comatosi che avevi tante volte spiato nelle foto di guerra di David Harali, nelle liriche di Gozzano, nei Cristi di Mantegna, negli incubi di Poe e nei manuali di Krafft-Ebing. L'avevi detto per tempo. Inciso su nastro. «Sono inconsolabile. Me lo sono guadagnato. Ho meritato quest'uscita dalla felicità infelice. Sono fuori. Questo muovere incontro alla morte. Forse per vivere non ci vuole una dignità, ma per morire sì. Bisogna essere degni».


    Giancarlo Dotto - Elogio di Carmelo Bene
     
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  4. SickGirl
     
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    Vi sono suicidi invisibili. Si rimane in vita per pura diplomazia, si beve, si mangia, si cammina. Gli altri ci cascano sempre, ma noi sappiamo, con un riso interno, che si sbagliano, che siamo morti.

    Gesualdo Bufalino - Il Malpensante
     
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  5. Luciano Vio
     
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    "... Ma ci fu chi continuò sulla via di quella prima frammentaria epopea: in genere furono i più
    isolati, i meno «inseriti» a conservare questa forza. E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il
    romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a
    scriverlo e nemmeno finirlo (Una questione privata), e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno
    dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un
    coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta,
    solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una
    questione privata.

    Una questione privata (che ora si legge nel volume postumo di Fenoglio Un giorno di
    fuoco) è costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi
    inseguimenti come l’Orlando furioso, e nello stesso tempo c'è la Resistenza proprio com’era, di
    dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria
    fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. Ed
    è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole precise e
    vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e
    quest'altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perchè.

    E’ al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione: non al mio...".

    Italo Calvino - Introduzione all’ed. 1964 de Il sentiero dei nidi di ragno.
     
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  6. tourette's
     
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    Nella prossima vita voglio essere un gatto. Dormire venti ore al giorno e aspettare che ti diano da mangiare. Starsene seduti a leccarsi il culo. Gli umani sono dei poveretti, rabbiosi e fissati.


    Charles Bukowski - Il capitano e' fuori a pranzo
     
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  7. <candore>
     
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    CITAZIONE
    L’ufficio notturno all’ultimo piano di un grande edificio direzionale. Sede nota e celebrata di
    uno dei più prestigiosi centri di potere, penetrabile unicamente con tessere e voti di appartenenza e
    offici di sudditanza e fedeltà.
    L’ufficio è arredato con strutture nitide di metallo. I finestroni di cristallo, ampi come pareti,
    specchiano una notte serena e silenziosa a quell’altezza, addensata dai clic meccanico dei sistemi in
    funzione, dal loro respiro.
    Nell’angolo a sinistra alcuni ficus ornamentali, compatti rigogliosi dentro l’oscurità. A destra
    spiccano le strutture e le tastiere della facciata di un calcolatore, per il resto affondato nel buio.
    Dai finestroni entra trasversalmente un raggio di luna, del diametro di circa due metri, tocca le
    schermature del calcolatore, si insinua tra le fessure dei lineamenti minori.
    – Tu sei un calcolatore? – domanda la luna.
    – Sì, un calcolatore elettronico.
    – Non ti conoscevo, ma ho sentito parlare di te.
    – Tu sei la luna?
    – Sì.
    – Anch’io ho sentito parlare di te, alcuni dei miei sono stati programmati per la tua conoscenza.
    Anch’io ho qualche dato su di te. Potrei dirti con precisione dove sarai fra trecento anni a quest’ora.
    – Lo so anch’io.
    – Ma non conosci la curva dei tuoi luoghi praticabili, approdi possibili, ora per ora, e nemmeno
    l’esatta dislocazione dei medesimi. Dove accoglierai domani, a quest’ora, un’astronave?
    – Non lo so. Ma io non devo accogliere nessuno, e il mio corso ha una fissità più grande di me e
    di qualsiasi calcolo tu possa fare.
    – Cosa credi di sapere e di fare?
    – Poco. Devo girare e guardar correre il mondo. La corrente dei miei sguardi lo influenza senza
    nemmeno ch’io lo voglia.
    – Anch’io guardo correre il mondo, i suoi capitali e influenzo l’uno e gli altri con dati e
    proiezioni. Tu sai che una navicella è atterrata su di te? Con tre uomini a bordo? Ed è già ripartita?
    – Una navicella giunta in volo dalla terra e che poi vi è ritornata?
    – Sì, con navigatori a bordo, tornati in buona salute. Hanno parlato bene di te. Veramente più di se
    stessi che di te. Ti hanno visto soprattutto come un traguardo, una misura già presto superabile.
    – Ma perché sono venuti?
    – Appunto, non certo per toccare il tuo viso, ma per prepararsi ad andare più lontano.
    – Ah, dunque, nel loro solito modo. Dovevo immaginarlo.
    – Ma tu, più di loro ti comporti nel solito modo.
    – Ma io sono un cardine dell’ordine generale. Un principio e uno specchio. Non sono soltanto un
    abitatore come loro, e nemmeno destinata a morire così rapidamente come loro.
    – È per questo che viaggiano, per studiare. Ogni viaggio è uno studio. Ogni scoperta è uno
    strumento.
    – E tu servi a loro per studiare?
    – Sì
    – Che cosa hanno da studiare? Li vedo sempre così ugualmente inquieti, così infelicemente
    indaffarati.
    – Studiano proprio per poter cambiare, loro stessi e la terra, e forse perfino il tuo giro, il tuo
    specchio.
    – E tu li aiuti?
    – Sì.
    – In che modo?
    – Compio delle operazioni numeriche, e ne tengo memoria per altri successivi e ancora più
    complessi calcoli. Io numero tutti gli uomini che lavorano in questa città, li ordino per classi e categorie, secondo
    l’età il mestiere le capacità il rendimento.
    – Che classi? Che categorie?
    – Quelle del mio programma.
    – Ma allora sei tu che stabilisci e misuri...
    – Certo... gli uomini si affidano a me.
    –Tutti gli uomini?
    – Sì. Tutti. Ma non certo tutti vengono con le loro dita a manovrare i miei tasti... solo i migliori.
    – E chi dice che quelli che vengono a toccarti siano proprio i migliori?
    – Lo so dai loro dati e piani di programmazione, e ne trovo conferma anche nel sottoprogramma
    delle retribuzioni.
    – Ma, dimmi, per conoscere gli uomini debbo passare attraverso di te, oppure per conoscere te è
    meglio passare attraverso la conoscenza degli uomini?
    – Ma tu cosa sai di loro?
    – Nulla. Li vedo. Vedo come occupano la terra, come la dividono e la lavorano. Vedo come
    spasimano e crescono le loro città, anche la tua, come dormono e sfriggono.
    - Invece io posso dire molto di più, e con precisione posso calcolare quanti siano gli uomini che
    dormono e quelli che vegliano, occupati nei lavori notturni… Posso anche analizzare che cos’è la
    sfriggitura di cui vai parlando, fumosa, che tanto ti commuove. Forse è dovuta allo sfrido4della
    crescita del capitale… Devi sapere che ogni cosa appartiene al capitale… aumenta con un tasso di
    valore che io sono in grado di calcolare esattamente insieme con la velocità stessa dell’aumento e
    della sua accumulazione.
    – E cos’è il capitale?
    – La ricchezza, la moneta, il potere, ecco, più di ogni altra cosa è il potere.
    – E a chi appartiene?
    – Agli eletti, ai migliori, alla scienza.
    – E tu fai parte di questa schiera?
    – Certo.
    - Ma allora quelli che ti manovrano ti sovrastano anche…
    - No, affatto, solo una piccola parte… Sono io lo strumento delle decisioni del capitale.
    - E quali sono gli uomini più vicini al capitale?
    - Te l’ho già detto, quelli che comandano, il dottor Astolfo per esempio, che occupa la stanza qui accanto alla mia.
    - Ci parli?
    - No. Ma calcolo i suoi pensieri, dispongo nella pratica le sue operazioni, e anche le controllo… Sono una parte di lui.
    - E cosa puoi dirmi di lui?
    - Oh, non sposso fare discorsi personali, né tanto meno rivelare i piani che mi sono affidati.
    - Di me puoi fidarti… Ho ricevuto milioni di confidenze senza mai tradirle…

    Paolo Volponi - Le mosche del capitale

    (mai più ristampato e fuori catalogo da anni!!!)
     
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    - C’è l’amore Bardamu!
    -Arthur, l’amore è l’infinito abbassato al livello dei barboncini, e ci ho la mia dignità, io ! gli risposi io.
    -Vediamo te ! Te sei un anarchico, ecco tutto!”
    Un furbastro, in ogni caso, lo vedete da lì , e tutto quel che c’era di avanzato in fatto di opinioni.
    “L’ hai detto, smargiasso , che sono anarchico ! E la prova migliore, è che ho composto una specie di preghiera vendicatrice e sociale che adesso tu mi dici subito l’effetto che fa : ALI DORATE ! E’ il titolo !…” E allora gli recito: Un Dio che conta i minuti e i soldi, un Dio disperato, sensuale e brontolone come un porco. Un porco con le ali dorate che casca dappertutto, pancia all’aria, pronto alle carezze, è lui , nostro padrone . Baciamoci !

    Celine - Viaggio al Termine della Notte
     
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  9. emma*
     
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    Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava.
    Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da pioggia sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti.


    Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.

    Dino Buzzati - Inviti superflui
     
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  10. SILENCIO!
     
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    L'orgoglio è un difetto assai comune. Da tutto quello che ho letto, sono convinta che è assai frequente; che la natura umana vi è facilmente incline e che sono pochi quelli che tra noi non provano un certo compiacimento a proposito di qualche qualità - reale o immaginaria - che suppongono di possedere. Vanità e orgoglio sono ben diversi tra loro, anche se queste due parole vengono spesso usate nello stesso senso. Una persona può essere orgogliosa senza essere vana. L'orgoglio si riferisce soprattutto a quello che pensiamo di noi stessi; la vanità a ciò che vorremmo che gli altri pensassero di noi.

    da "Orgoglio e pregiudizio" di Jane Austen
     
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  11. SILENCIO!
     
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    Sappiate che la posta di ogni mio gioco sono sempre stata io stessa: fino all' immortalità della mia anima. E ho perso sempre io.


    Marina Cvetáeva
     
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  12. SILENCIO!
     
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    Privarsi della propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare a essere nell'immaginazione il centro del mondo, distinguere tutti i punti del mondo come centri allo stesso titolo e il vero centro come esterno al mondo, significa acconsentire al regno della necessità meccanica nella materia e della libera scelta al centro di ogni anima. Questo acconsentire è l'amore. Il volto di questo amore rivolto alle persone pensanti è carità del prossimo; il volto che guarda la materia è amore dell'ordine del mondo, o, che poi è la stessa cosa, amore della bellezza del mondo.


    Simone Weil
     
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  13. SILENCIO!
     
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    With dispassionate despair, with entire disillusionment, I surveyed the dust dance; my life, my friends’ lives, the willow tree by the river — clouds and phantoms made of dust too, of dust that changed, as clouds lose and gain and take gold or red and lose their summits and billow this way and that, mutable, vain. I, carrying my notebooks, making phrases, had recorded merely changes; a shadow, I had been sedulous to take note of shadows. How can I proceed now, I said, without a self, weightless and visionlesss, through a world weightless, without illusion?



    Virginia Woolf, from The Waves
     
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  14. SILENCIO!
     
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    There was a star riding through clouds one night, and I said to the star, ‘Consume me.’

    Virginia Woolf, The waves
     
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  15. SILENCIO!
     
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    “Le cose si succedevano rapide, una dopo l’altra, e si aveva l’impressione che il tempo volasse, al punto che non ci si ricordava più se si era vecchi o giovani. La donna aveva l’aria di essersi fatta ingannare, dal tempo. Doveva esser passato due volte più in fretta, per lei, senza che se ne rendesse conto, mentre dormiva.”

    Flannery O’Connor, Il treno
     
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56 replies since 1/5/2013, 07:04   3229 views
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